Non si tratta più della Cina da sfruttare e che si lascia sfruttare, quella di oggi è una
nazione che rifiuta di essere considerata solo un serbatoio di forza lavoro, al di sotto di
ogni minimo standard di sicurezza.
Oggi il Celeste Impero si affaccia ai mercati non come
preda ma come cacciatore che può contare su una nuova fase dell’evoluzione economica,
la seconda, nella quale è nata una classe media di oltre 500 milioni di persone che ha
preso coscienza della sua forza finanziaria e anche dei vantaggi di un nuovo livello di
benessere dato da un reddito che va dai 10mila ai 20 mila euro l’anno tra le fasce più
deboli di questa nuova categoria sociale. Un patrimonio spendibile non solo in termini di
soldi ma soprattutto per la richiesta di nuovi standard di vita e di consumo.
Proprio in questo caso la consapevolezza di quanto ricevuto da un passato di
“deregulation”in fatto di inquinamento è la molla che fa scattare la ricerca, nel
consumatore, del prodotto straniero considerato qualitativamente più affidabile. Tutto ciò
che è cinese è visto a Pechino come qualcosa di inquinato (soprattutto in ambito
alimentare), insalubre (giudizio per lo meno condivisibile viste la scene di nebbia non
meglio identificata che caratterizza il panorama delle grandi megalopoli), giudizi che
nascono dalla constatazione che un’industrializzazione selvaggia ha portato le grandi città
in cima alle classifiche delle zone più inquinate, creando in mito di una realtà a se stante
dove tutto ciò che altrove è proibito, lì sia permesso a discapito della sicurezza. Il prodotto
cinese, creato per l’estero a basso prezzo, non è più per un a Cina che cerca (e trova)
quello di qualità europea a un prezzo superiore ma ora accessibile a molti.
Niente più cibo locale sulle tavole di Pechino e Shanghai, terrorizzate dal latte alla melamina, dal pollo
infetto (o potenzialmente tale), dalla grappa intossicata. Qundi la volontà di incontro con la
realtà industriale italiana si sviluppa come un’alternativa possibile ma che vede proprio
dalla parte del Bel Paese le difficoltà maggiori. Quali? Riuscire a gestire una politica
commerciale diversa. Strano ma vero per un paese come l’Italia, abituata all’export e alla
diffusione (non sempre meritata) dei suoi marchi all’estero come sinonimo di stile e
garanzia di qualità.
Eppure l’Italia ha un pregio in casa e nel mondo che a Pechino diventa difetto: siamo bravi
nel fare, ma in piccolo e in Cina, nella patria modiale delle megalopoli, piccolo non è bello.
Non solo, ma abbiamo anche difficoltà a sfruttare un mercato potenzialmente immenso
come quello che ci si presenta davanti anche se, come nel caso del vino, spesso è più
interessato alla marca che non al gusto.
La via d’uscita sarebbe quella di imparare a gestire una nuova sensibilità verso il prodotto
estero e l’influenza che esso esercita. Non si tratta più di far subire agli altri il fascino del
made in Italy come da anni siamo abituati a fare, bensì di comprendere come la Cina non
solo si stia facendo influenzare dallo stile di vita occidentale, ma sia anche consapevole di
poterlo assorbe e rielaborare secondo gli standard e le esigenze proprie. ricordando
sempre che le caratteristiche socio economiche di un paese così lontano sono altrettanto
diverse dalle nostre.